Conversazione con Cesare Pietroiusti

Conversazione con Cesare Pietroiusti

12 maggio 2019. Museo Macro di Roma. Incontriamo Cesare Pietroiusti, artista concettuale che ha orientato la ricerca, iniziata alla fine degli anni settanta, nell’ambito delle dinamiche comportamentali e delle dinamiche relazionali. Esponente dell’Eventualismo (movimento d’avanguardia che formula una teoria estetica coniugando arte e scienza), e del Gruppo di Piombino, negli anni ottanta. Dagli anni novanta analizza, attraverso l’attività performativa e il metodo relazionale, vari aspetti della società contemporanea, in particolare le dinamiche del consumo, dei comportamenti omologati, e della mercificazione dell’arte. Dal luglio 2018 è Presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo di Roma.

Patrizia– Si è aperta la 58. Esposizione D’Arte Internazionale a Venezia, il curatore Rulph Rugoff ha titolato l’esposizione May you live in interesting times,( Che tu possa vivere in tempi interessanti) spiegandoci che si tratta di un (falso) anatema cinese entrato da secoli nella retorica del dibattito politico, per indicare tempi difficili e travagliati, e dunque anatema di straordinaria attualità per indicare l’attuale momento storico, dalle fake news e la sfiducia nelle istituzioni e nei sistemi di informazione, al ritorno dei nazionalismi, alla condizione drammatica dei migranti profughi che coinvolge l’intero pianeta. Rugoff invita l’arte a riflettere su questo..Come artista hai più volte dichiarato: “Il mestiere di artista concede delle libertà molto grandi, tecniche, metodi, linguaggi..ma ogni strada ha le sue regole morali”.. Qual è l’azione dell’arte all’inizio del XXI secolo, quali responsabilità ha l’artista in questi nostri tempi “interessanti”?

Cesare– E’ una domanda molto impegnativa con un raggio di significato grande. Vorrei partire dal termine interesting che è un termine usato spesso da Hannah Arendt, che è una filosofa che trovo abbia intuito molto in anticipo sui tempi alcune cose sulla contemporaneità e sulle problematiche più urgenti degli ultimi decenni forse perché era una donna e aveva una visione della filosofia meno speculativa, meno accademica e più legata al reale… Il verbo latino inter-esse significa essere fra, e ci può dare una chiave di lettura sul perché è stato scelto questo titolo per la Biennale e quale può essere il senso dell’intervento dell’arte rispetto alle urgenze ed alle crisi, rispetto alle cose che lasciano indignati, rispetto alle vicende del contemporaneo, del presente. C’è una frase di Deleuze e Guattari in Che cosa è la filosofia che dice: “I libri di filosofia e le opere d’arte hanno in comune il fatto di resistere: alla morte, alla schiavitù, all’intollerabile, alla vergogna, al presente”. E’ stata scritta nel 1991, quindi dà un po’ l’idea che la drammaticità e l’orrore del presente manifestino una certa continuità… Comunque io credo che l’arte rappreesenti una modalità di resistenza agli orrori del presente, diversa sia dalla filosofia che della politica in senso stretto, perché l’arte si inserisce in una dimensione fra, intermedia, fra le prese di posizioni oltre che tra i linguaggi e le tecniche cioè le modalità con i quali i contenuti vengono espressi. E che cosa significa questo essere fra? Significa non accontentarsi né della disciplina che regola i linguaggi né della specificità delle tecniche, cioè accontentarsi di valutare un contenuto in base alla perfezione della sua esecuzione rispetto all’aderenza ad una tecnica (pensiamo alla musica o anche alla pittura che storicamente richiedeva specifiche forme di rispetto della tecnica) e neanche delle prese di posizione di ordine morale, etico o politico.

Questo non significa affatto che l’arte sia indifferente rispetto alle competenze o alla giustizia delle prese di posizione morali o politiche, al contrario significa che è necessario conoscerle e averne un grande rispetto proprio nel momento in cui se ne mettono in discussione le specificità. Bisogna saper considerare che le forme e le regole sono strumenti e non obiettivi finali: questo è come compiere, rispetto ad una presa di posizione, un salto di libertà, poiché l’arte è quello strumento che ti fa rendere conto che tutte le prese di posizione sono possibili. Infatti, lo strumento che l’arte offre, l’emancipazione che l’arte dà, è quella di acquisire la dimensione di libertà, di gioco, di utilizzo delle regole che va la di là del linguaggio più avanzato, al di là delle regole più raffinate. Tale “al di là” è la libertà umana dell’uso delle cose – anche di quelle più perfette che noi stessi abbiamo creato – come elementi di nuovi giochi non ancora giocati.

Ieri ho visto a Milano uno spettacolo di Stefan Kaegi, che è un monologo recitato da un robot molto perfezionato. Quello che differenzia la macchina dall’umano è che l’umano ha la possibilità di programmare, il robot si ferma di fronte alle modalità di autocorrezione, di risposte alle domande, di aggiustamento delle situazioni perché solo l’umano può fare quel salto che comprende ciò che è stato considerato come sottoinsieme di una classe più ampia. E’ un salto epistemologico, o etico. Quel salto, la possibilità di quel salto, è la nostra forma di libertà. Il compito dell’arte – da sempre ma è chiaro che con il XX secolo questo si è evidenziato in modo più forte – è mostrare questa possibilità, renderla comprensibile, condivisibile, moltiplicabile.

P– ..pagando anche con la perdita di riconoscibilità

C– Certo , perdere la riconoscibilità data dagli inquadramenti regolari delle Accademie delle capacità tecniche, per guadagnare la libertà che significa parlare un linguaggio ma esserne continuamente consapevoli mettendolo in discussione…

P ..ed anche attraversarli tutti questi linguaggi

C Anche , ma è chiaro che quello che sto dicendo non vuole essere un elogio del caos: non è il caos l’attraversamento dei linguaggi , al contrario, solo il grande rispetto di un linguaggio può consentirci di fare un discorso utilizzando quel linguaggio. L’attraversamento, casomai, è la poesia. (non mi riferisco solo al linguaggio verbale ma anche ad altri linguaggi, video , cinema ecc.)

PIn un tuo saggio hai scritto che fare l’artista è come muoversi dentro la bottiglia di Klein, che è una superficie non orientabile, dove percorrendo i confini non si distingue più il dentro dal fuori..

C– Perché io parlo di emancipazione rispetto a questo? Perché una volta che c’è consapevolezza di questo, ogni presa di posizione di tipo integralista, di intolleranza o di rifiuto rispetto alle diversità, diventa completamente, evidentemente, automaticamente stupida, nemmeno giusta o sbagliata, ma stupida inutile, assurda, come tifare per una squadra di calcio, puoi anche farlo ma con la consapevolezza che è un giochetto…

P …perché ormai siamo consapevoli che possiamo entrare nello sguardo dell’altro..

C– …esatto , nel momento in cui il sistema non è più chiuso ma aperto, ed è aperto perché può saltare di livello ed includere il livello precedente…

P– In questo senso hai definito l’artista come l’agente dello spostamento…colui che opera uno spostamento..

C– … la differenza fra la conoscenza ed altri beni è che i beni una volta usati si consumano, la conoscenza invece si perfeziona; più la usi e più ti offre strumenti.

Lo spostamento fondamentale è saper vedere le cose dal punto di vista dell’altro. E’ molto semplice… basta innamorarsi, basta amare un’altra persona e ti rendi conto di cosa significa vedere le cose dal punto di vista dell’altro. Ci vuole un canale affettivo, ma l’essere umano questo lo sperimenta spesso. E vedere con gli occhi dell’altro vuol dire capire che le possibilità di vedere sono moltissime…

PPistoletto nel suo ultimo manifesto dice che il principio della creazione è nella trinamica 1 più 1 uguale 3. dall’incontro di due entità nasce un terzo soggetto nuovo che comprende i due ma li supera, e che cambiando le forme di una relazione si produce nuova civiltà.

C– Uno più uno uguale tre vale anche con il linguaggio. Il mio discorso più il tuo discorso, se noi siamo in dialogo, se c’è il canale, dà vita ad un altro discorso che non è più soltanto la somma dei due. Siamo di nuovo ad un salto epistemologico: lo spostamento nel punto di vista dell’altro è la generazione di un nuovo campo che comprende un incontro tra due elementi.

P– J. Rancière, a proposito degli enunciati politici o letterari dice che “l’uomo è un animale politico perché è un animale letterario che si lascia sviare dalla sua destinazione <naturale> dal potere delle parole. L’arte ragiona molto sulle parole, le ricostruisce, le riporta all’evidenza, crea nuove parole con nuovi significati. L’analisi del linguaggio, l’uso consapevole delle parole, capire la stratificazione di storia e significato che rappresentano è da sempre uno dei tuoi campi di ricerca. Hai costruito su questo laboratori e performance (Esplorare le parole- Art for business 2011, Body Politics- Biennale di Atene 2009, Cosa si può fare con le parole- Cooperativa integrata Pass Partout 2017). In un saggio, “Potere alla parola”, scrivi che è un tentativo specificamente politico ridare potere alla parola. Quali sono le parole che la contemporaneità ha esautorato, o parole che teme? Quali sono le parole dell’arte oggi?

C– Faccio fatica ad identificare delle parole specifiche, però trovo una chiave di lettura a questo discorso in una cosa ovvia, banale ma significativa. La tendenza ad usare nel discorso corrente certe parole della lingua inglese è un segno inquietante di come una ideologia di tipo mercantile e basata su concetti di efficienza economica stia invadendo o abbia completamente invaso molto del discorso contemporaneo, non solo dei media ma anche degli scambi quotidiani. Intendiamoci, la lingua inglese è una lingua bellissima legata ad una tradizione poetica meravigliosa, però di fatto forse per le sue strutture grammaticali semplici, viene usata per veicolare messaggi semplificati, e questi messaggi sono tutti incentrati sull’idea di profitto, sull’idea di mercato, sull’idea di efficienza. Questo per me è pericolosissimo perché prima di tutto impone a tutti quelli che non sono anglofoni di pensare in un certo modo, ed esprimersi in una lingua che non è la loro, e questo da un punto di vista politico è grave: non vuole affatto dire essere nazionalisti, l’identità nazionale non c’entra nulla. La lingua madre è la lingua con la quale tu ti sai esprimere, usare una lingua che non conosci bene ti mette in una posizione di subordinazione oppure di omologazione. Tutte le volte che dirai business ti riferirai ad un significato del tutto predeterminato e non avrai quella possibilità di spostamento che l’uso delle parole (conosciute) offre. Già dire affare invece di business cambia, perché in italiano la parola affare assume anche altri significati. L’ambiguità, le complessità che stanno dentro le parole sono la nostra libertà di espressione, sono la nostra possibilità di trovare, all’interno di un discorso, il nostro uso delle parole. Se dobbiamo attenerci ad uso delle parole così rigido, è chiaro che abbiamo una libertà coartata proprio alla base, proprio all’origine. Il problema, quindi, non è identificare le parole dell’arte quanto cercare di capire che le parole sono estremamente complesse e meravigliose proprio nella loro indeterminatezza, cioè proprio nel fatto che ogni parola contiene attraverso i suoi livelli etimologici, attraverso i suoi livelli di uso, attraverso le sue casuali assonanze con altre parole, molteplici possibilità di uso poetico, eterodosso, non prevedibile. Mi veniva in mente proprio sentendo Luca Patella l’altro giorno al Macro Asilo. Nella parola “amare”, ci sono due significati, c’è quello legato all’amore ma c’è anche l’amarezza, e questo è stupendo. Nella parola love tutto questo non c’è – e se ci fosse, non essendo anglofoni, non lo sapremmo. Perdendo quell’ambiguità che ci consente di muoverci e di dare espressione alle sfumature, noi perdiamo una libertà fondamentale. Noi siamo parlati dal linguaggio, siamo esseri zoologici che si esprimono attraverso un linguaggio che ci viene imposto dall’esterno attraverso la nostra educazione: nell’incrocio tra la zoè e il logos siamo noi e se il logos non ha sfumature, eterodossie, imprevedibilità, saremo inchiodati alla zoè, cioè alla nostra parte animalesca, Dobbiamo cercare di spostarci in quel territorio inter-essante fra l’una e l’altra cosa.

La parola poesia, il vivere poeticamente non significa stare lì a parlare di sentimenti, ma rendersi conto che esiste un’attività poietica, produttiva, che sta lì, tra l’anatomico ed il simbolico, ed è tutto un territorio da percorrere, da creare, direi, parola per parola. La libertà è rendersi conto che siamo esseri che non sono soltanto dentro ai sistemi, ma che li possono anche usare standone fuori. In questo gioco tra il dentro e il fuori sta la nostra libertà.

PSei un artista che da sempre ragiona sulle dinamiche del consumo e della mercificazione, anche dell’arte, l’operazione artistica Opere in distribuzione gratuita (2005- 2015) svela in chiave critica le dinamiche del mercato dell’arte, del sistema arte; sei per un’opera che sia idea per una comunicazione artistica non autoriale, basata sul movimento delle idee, sullo scambio; hai spesso lamentato la carenza delle istituzioni in progetti di supporto agli artisti, hai fondato residenze per artisti, hai trasformato ogni invito da parte delle istituzioni in occasione di coinvolgimento e di cambiamento (quadriennale 1996, Oreste alla Biennale 1999). Nel luglio del 2018 sei stato nominato Presidente del Cda dell’Azienda Speciale Palaexpo di Roma Capitale. Alla conferenza stampa di presentazione del progetto di rinnovamento del Macro hai dichiarato “sono cambiate le forme del sapere contemporaneo e macro asilo desidera scardinare le barriere tra tutte le discipline umanistiche e aprire il campo alla creazione di spazi adatti a preservare le istituzioni pubbliche, impedendo la cannibalizzazione da parte del mercato”. Il cambiamento è arrivato con Progetto Macro Asilo, un progetto radicale ed innovativo..

C- Io ho fatto domanda di far parte del consiglio di amministrazione di Palaexpo perché Giorgio De Finis me lo ha chiesto e perché avevo un grande entusiasmo per questo suo progetto del Macro Asilo. Diciamo che ho considerato fosse un dovere civico sostenere un progetto come questo, non solo come artista. Pensavo che avrei fatto parte del CdA probabilmente in una posizione di minoranza rispetto alla difesa di un progetto che mi sembrava così radicale e così coraggioso. Invece la contingenza politica particolare di questo momento ha consentito questa situazione: da una parte una nomina di un Cda che è comunque molto favorevole a questo progetto e addirittura la proposta che è stata fatta proprio a me di diventare Presidente. Senz’altro di fronte ad un incarico di prestigio scatta sempre un minimo di gratificazione narcisistica, però io davvero lo sto facendo per una sfida. Non so esattamente cosa tutto ciò produrrà, però dentro la paradossalità e la stranezza di essere chiamato proprio io, un artista che ha lavorato sempre un po’ ai margini, e anche in maniera critica nei confronti del mercato e dell’istituzione pubblica, ho pensato che potesse esserci un’occasione per vedere se su certi meccanismi si può agire. In che senso? Fondamentalmente io credo che vadano costruite situazioni comunitarie, non semplicemente di intrattenimento, ma comunità di indagine, di sapere e di senso, che sono altrettanti divertenti delle pure e semplici comunità di intrattenimento. Una delle cose di cui sono convinto è che si possano creare ponti, e che, per esempio, mangiare o bere in modo consapevole e critico e con un sapere condiviso, sia tutta un’altra cosa rispetto al mangiare e bere e basta. Noi possiamo fare una cena e se abbiamo studiato alcune ore prima i riti connessi al cibo che stiamo mangiando, si mangerà in modo diverso e non è affatto meno divertente, è più divertente. Se ci si ubriaca analizzando un testo su Dioniso è molto più divertente che se ci si ubriaca e basta, poiché una modalità conoscitiva che mette in gioco il corpo e la sensualità tanto quanto il pensiero analitico, l’uso creativo del linguaggio ecc. I greci lo chiamavano Simposio… Anche in questo caso io sono per uno stare fra l’intrattenimento e la conoscenza. Il tentativo che io voglio portare avanti è quello: la creazione di comunità di senso. Qui al Macro Asilo Giorgio De Finis, ha intuito come usare lo spazio, ha intuito cosa realizzare in questi spazi confusi, difficili, anche brutti dal punto di vista architettonico, e qui si sta formando un tipo di visitatore completamente diverso. Capisco benissimo le critiche che sono state fatte a questa esperienza, e le conosco perché ho già vissute situazioni simili con l’esperienza di Oreste vent’anni fa. So che, se tu orienti l’operazione nel segno dell’apertura è chiaro che non potrai mai garantire la qualità, dal punto di vista del cosiddetto professionismo…

P può essere un limite dell’operazione, d’altra parte è anche una sfida..va a scardinare pratiche espositive consolidate..

C– Conosco molto bene la sfida dell’apertura e il rischio di cadere sotto l’accusa di dare spazio ad artisti frustrati, ma bisogna giocare su questo terreno senza ideologizzare la mediocrità, ma anche senza togliere il rispetto assolutamente dovuto alla qualità della ricerca artistica. E’ lì che bisogna portare il livello della sfida: cercare lo speciale nel mediocre e garantire la qualità anche all’interno di dinamiche di apertura. Il punto fondamentale per me è la radicale trasformazione del visitatore perché ogni volta che il visitatore entra qui al Macro si rende conto che non è l’opera da vedere che sta riempiendo quel museo, rispetto alla quale la tua presenza è indifferente: qui se tu che fai il museo. Se non ci sei tu il posto è vuoto e quindi quando entri ti rendi conto che il museo è pieno di te, sei tu che lo stai facendo…

Pquindi questo tipo di fruizione educa in qualche modo all’artisticità…

C– Esatto, il passo successivo è che il visitatore in questo modo arrivi a sentirsi autorizzato a fare proposte, e questo sta succedendo, con tutte le sfumature possibili…e tutti i rischi dell’operazione. Però non si può, a causa delle inevitabili criticità, ignorare questa esperienza la qualità incredibile che sta proponendo come modello.

Poi c’è un altro aspetto: se prendiamo una città come Milano, che dovrebbe essere la punta più avanzata dell’arte contemporanea in Italia, vediamo che ormai le grandi mostre di qualità le possono fare soltanto le grandi fondazioni private come Prada. Nessun museo pubblico può più avere, almeno nel medio periodo, quelle possibilità economiche: su quel livello il museo pubblico non ha la possibilità di competere. Il Palazzo delle Esposizioni, per mettere insieme un allestimento come quello della mostra in corso Il corpo della voce, ha fatto uno sforzo enorme. Dal punto di vista del nostro budget è una cosa dolorosissima perché reggere mostre a quel livello è uno sforzo che possiamo fare due o tre volte all’anno. Allora la sfida è giocare su un altro piano, siamo capaci di garantire la grande mostra con tutti gli allestimenti giusti, ma siamo capaci soprattutto di creare comunità. Questa è la funzione fondamentale dell’istituzione pubblica che fa cultura. Comunità ed emancipazione.

PSta venendo avanti qualcosa di nuovo anche negli altri spazi gestiti dall’azienda Palaexpo, gli spazi a Pelanda-Mattatoio. A marzo sono partite “chiamate aperte” per alcuni laboratori sulla performance.. sono la prima fase di un progetto che prevede entro il 2020 un corso di alta formazione e la creazione di un laboratorio permanente sui linguaggi della performance. Il senso di questa operazione in parte l’hai chiarito ora, ma qui entriamo nella formazione degli artisti, una formazione che vuole essere forse diversa da quella impartita nelle Accademie? Qual è l’obiettivo di questo progetto?

C– Nella contemporaneità di una città come Roma, l’unica possibilità, o almeno quella più alla portata, di creazione di luoghi di confronto nelle quali tutte le cose che ci stiamo dicendo adesso possano essere non solo discusse ma messe alla prova, è la dimensione laboratoriale. Tale dimensione è legata alla formazione, in prima istanza, ma può anche spostarsi verso il terreno delle mostre nei musei, e, di nuovo, dell’intrattenimento. Quello della formazione è il terreno sul quale i giovani manifestano una disponibilità ed una apertura al confronto con gli altri, una disponibilità che raramente troviamo in altre fasce di età. La mia esperienza è che non capita quasi mai che in una mostra tu abbia possibilità di confronto o di messa in pratica di questioni critiche, di pensiero critico. Invece, come formatore all’università o in altri contesti vedo che accade molto di più.

Il punto però non è solo fare formazione, creare artisti intelligenti, critici ecc. La sfida, per quanto riguarda il Mattatoio è quella di creare una piattaforma dove i vari linguaggi dell’arte performativa possano comunicare tra loro. Lo so, non è una novità, è ovvio; almeno dal Bauhaus in poi. Però scuole dove questo accade e viene provato non ce ne sono, almeno in Italia; e allora io dico: facciamole. Il primo tentativo è già partito: è un Master, attivato in collaborazione e in convenzione con il Dipartimento di Architettura di Roma 3, che ha sede dentro il Mattatoio. E’ un pezzo di città, una specie di fabbrica, il mattatoio, che ha subito molti tentativi di reinvenzione o di rivitalizzazione. L’ipotesi è che ci siano, in questo momento, le condizioni affinché la creazione di queste comunità di senso di cui dicevo prima, possa avvenire proprio intorno alla scuola, intorno ad un gruppo di studenti che potrebbe essere il primo nucleo di un collettivo che abita quel luogo. La scuola allora diventerebbe anche un laboratorio sugli spazi comunitari in generale, ma in particolare quel luogo lì, e che quindi potrebbe contribuire a creare al mattatoio una situazione simile a quella del Macro Asilo, con la stessa capacità di apertura, però rivolto ad un pubblico più giovane, con una attenzione maggiore verso la sperimentazione dei linguaggi artistici, danza, teatro, musica elettronica. La sfida più grande è far si che intorno a questa scuola si attivi quell’intero pezzo di città, che diventi un luogo dove stare insieme e divertirsi siano dentro un processo di indagine, formativo e artistico.

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