Lockdown #fase1. La grande performance.

Lockdown #fase1. La grande performance.

Una performance nell’arte è un’azione che lavora con tre elementi: il tempo, il corpo, lo spazio. Risponde all’urgenza degli artisti di elaborare e condividere esperienze dolorose individuali o traumi collettivi, o affrontare tematiche precise. Per farlo l’artista trascina il pubblico dentro situazioni sospese, dove gli elementi della vita sono cristallizzati, esposti, trascinati dentro una dimensione “altra” rispetto alla quotidianità. E’ uno sconfinamento dell’arte nella vita. Questo tipo di azione può essere individuale o collettiva, si basa sulla ferrea disciplina di comportamento che l’artista si impone. Una performance è una prova di resistenza, di concentrazione, l’artista è l’agente, progetta meticolosamente una situazione, sapendo tuttavia che la situazione in cui agisce è aperta al caso, alla contingenza, all’imprevisto che è sotteso ad ogni evento, che può cambiare o ribaltare ciò che si era costruito. Nell’arte come nella vita, la contingenza spariglia le carte, porta fuori dagli obiettivi, cambia la segnaletica all’ultimo minuto, ma se nella vita (specie in quella contemporanea) riteniamo negativo l’accadimento imprevisto che ci coglie impreparati, impedisce la fedeltà al progetto, o il perseguimento dell’obiettivo, o semplicemente rompe gli schemi abituali, nell’arte della performance la contingenza è programmaticamente assunta come valore aggiunto perché, data la regola, la deviazione non è altro che la capacità di cogliere il senso nuovo delle cose, l’opportunità di riconfigurare pensiero e azione, è l’allenamento a reinventarsi, o a resistere alle tempeste. Nella performance l’artista è il regista di una situazione dove arte e vita sono vasi comunicanti, l’una ci parla dell’altra, l’una condiziona e insegna all’altra, l’una svela aspetti dell’altra, in una situazione dove l’intenzionalità di un progetto si confronta con l’improvviso carico di costrizioni, interazioni, e passività che un fattore imprevisto e imprevedibile può introdurre e deviando, cogliamo verità e aspetti del reale che mai avremmo potuto cogliere dentro le nostre vite convenzionali. La performance di un artista svela sempre qualcosa. Quando ci imbattiamo in una performance possiamo sentirci infastiditi, o affascinati, addirittura indifferenti, ma sempre avvertiamo che in quella situazione assurda, paradossale, spesso estrema, il tempo, lo spazio, il corpo hanno un altro senso rispetto all’ordinario svolgersi delle cose. Fino al giorno in cui l’inimmaginabile fa irruzione nella nostra vita, stravolgendola, cambiandola per sempre, costringendoci a ripensare tutto. E le parti curiosamente si invertono, non è più la performance a sconfinare nella vita, ma la vita a sconfinare nella performance e diventati noi stessi performers capiamo meglio il messaggio che l’arte aveva messo nella bottiglia.

Dall’inizio di questo 2020 un virus ha trascinato il mondo in una dimensione “altra”, in uno stato di mobilitazione permanente, dove tutto ha acquistato un significato diverso. Una performance planetaria della sopravvivenza e della interdipendenza, dove l’umanità sofferente e in pericolo è solo uno dei protagonisti, l’altro è il pianeta che ci ospita: la natura, gli animali, l’acqua, il cielo, l’aria.

Sopraffatta dalla velocità di propagazione del virus, dopo aver compreso che nello spazio globalizzato e interconnesso che ha creato, niente può essere più considerato veramente lontano, remoto, e che l’uomo dell’era ipertecnologica è ancora soggetto alle leggi della natura, che può violare, calpestare ma non dominare fino in fondo, l’umanità assediata dalla pandemia si è strategicamente ritirata.

Il pianeta ha così iniziato una performance in “direzione ostinata e contraria” alla nostra sventura, nello spazio liberato dagli uomini, tutto è rinato, tutto è iniziato a guarire, il cielo, l’aria, l’acqua, il mondo animale.

Negli anni settanta l’artista tedesco Joseph Beuys (ferito) si chiuse in una stanza per diversi giorni con un coyote, per sottolineare la necessaria convivenza dell’uomo con la natura, ad armi pari, nel rispetto reciproco, contando sul potere salvifico di questo equilibrio. In questi mesi la festa della natura, che senza di noi tornava al proprio splendore, ha chiuso per sempre questa riflessione. Il coyote si salva solo se l’uomo smette di abitare. La specie umana si è intrappolata in un modello di sviluppo che corre verso la distruzione del pianeta che la ospita, corre verso il baratro e non si fermerà, se non per brevi periodi, in caso di pandemia.

Il mondo cieco degli uomini, doppiamente colpevole perché consapevole, ha archiviato lo spettacolo sotto #la natura si riprende i suoi spazi, ha dato un nome al “nemico” : Covid-19, e (con alcuni distinguo a seconda della latitudine e degli ordinamenti politici) ha iniziato la grande azione collettiva denominata Lockdown.

La Politica e l’arte, come i saperi, producono “finzioni”, ossia dei concatenamenti materiali dei segni e delle immagini, dei rapporti tra visibile e dicibile, tra ciò che si fa e ciò che si può fare, afferma Rancière. In questa situazione di drammatica emergenza la Politica ha riconfigurato il reale, ridistribuito spazi e azioni, prescritto resistenze e discipline, stabilito la nuova razionalità del quotidiano. E’ quella bolla sospesa di spazio-tempo, di inversione di senso, nella quale fino ad ora solo gli artisti si erano avventurati con leperformance, potendo contare sul potere straordinario dell’arte di metterci sotto gli occhi le contraddizioni della vita, di suggerirci altri modi di stare al mondo senza imporci nulla, mettendo in scena una finzione.

Lockdown: confinamento, isolamento. La quarantena è lo strumento che l’umanità adotta da molti secoli per difendersi dalle epidemie, ma nella società mediatica contemporanea, a comunicazione globale, l’azione è diventata performance quotidiana e spettacolarizzata della Politica che necessariamente costruiva il percorso della Storia con nuove leggi, nuovi eroi, nuovi capri espiatori, nuovi riti, affidando la recezione del messaggio alla potenza delle immagini, e degli enunciati.

Gli enunciati politici o letterari, hanno effetti sul reale:definiscono non solo dei modelli di parola o di azione, ma anche dei regimi di intensità sensibile.(J.R)

Andrà tutto bene- Siamo un grande popolo-Io resto a casa- Alla giusta distanza-Facciamo uno sforzo adesso e saremo più forti domani-Distanti oggi per riabbracciarci domani…

Le immagini tanto tragiche quanto esteticamente perfette, a ricordarci che l’Arte e la Storia appartengono all’essere umano, che è capace di produrre orrore e bellezza, strage e poesia, distruzione e creazione.

Sul sagrato della Basilica che ha visto all’opera il genio di Michelangelo, davanti ad una piazza nata dalla fantasia architettonica barocca di Gian Lorenzo Bernini, sotto una pioggia impietosa il Papa prega da solo. Intercede per l’umanità colpevole. Signore non ci abbandonare nella tempesta. Il crocefisso ligneo ritenuto miracoloso della chiesa di San Marcello, sopravvissuto all’incendio nel 1519, portato in processione per far cessare la grande peste nel 1522, in un giorno di marzo del XXI secolo, sanguina tempera sotto la pioggia, come offerto in sacrificio. Il mea culpa degli uomini, tra i simboli dell’arte, della bellezza che il genio umano ha saputo creare.

E nel silenzio della vita trattenuta, la poesia dei luoghi deserti, le statue, le piazze, i monumenti, i ponti, i luoghi degli uomini, ci è stata mostrata la straziante bellezza del nostro battere in levare, e ognuno è mancato a sé stesso, mentre tutti coglievamo il senso profondo della Storia che si faceva sotto i nostri occhi, nell’epoca live-online.

Dentro la Storia, le storie della nostra quotidiana performance di resilienza individuale, milioni di performance che in Italia vanno sotto #iorestoacasa. Ognuna con il suo grado di intensità sensibile. Il Lockdown è stato un fermo immagine sulle situazioni di ognuno. Ciascuno costretto a fare i conti con sé stesso e con la propria realtà congelata, con il carico di verità, belle o brutte, che una esistenza di corsa e distratta oscurava.

Chiusi nelle nostre case, disorientati, impauriti, privati di colpo delle libertà che ritenevamo inviolabili, calati senza preavviso nelle ore, nei giorni sospesi, costretti a reinventare il nostro rapporto con il tempo e con lo spazio, separati dai corpi degli altri, abbiamo dovuto imparare a proteggerci dall’urto della Storia, a non crollare davanti alle sue immagini potenti che invadevano le nostre case.

Abbiamo dovuto imparare a saper discernere la razionalità dei fatti e la razionalità della finzione, perché nella finzione c’era anche lo scontro dei poteri, politici, economici, persino scientifici. Siamo siamo stati investiti senza poterci difendere da un flusso di dati, notizie contrastanti, bollettini, fake news sui social, nel momento in cui eravamo fragili, colpiti, inermi nei nostri rifugi..

Non è mai stato così chiaro il senso delle azioni di Wolf Vostell che, nel 1959 di fronte alla nascente società delle immagini e dei mass media, diffondeva le TV dé-coll/age: istruzioni di disobbedienza per milioni di telespettatori passivi, contro la manipolazione ideologica “Sedete vicinissimo alla schermo-pungetevi con un ago-ritagliate un’immagine pubblicitaria da una rivista e guardate lo schermo dalla forma vuota della pagina…strategie di difesa e di sopravvivenza..

Ci siamo trovati dentro una realtà di colpo capovolta rispetto alla vita vissuta, una realtà dove per sopravvivere alla tragedia, alla paura, al dolore, occorreva creare, inventare, resistere, capovolgere significati. Imparare a muoversi nella lentezza, disciplinare il corpo, frenare l’azione, bastarsi, saper ascoltare i propri pensieri, sperimentare l’esperienza della separazione. Quante volte ci siamo sentiti dire, e ci siamo detti- Ne usciremo migliori– Come se la nostra prova fosse anche un atto di purificazione.

Dopo la tragedia del 11 settembre Marina Abramovic visitò New York e trovò un cambiamento nelle persone che apparivano più vulnerabili, più fragili, più spirituali, concepì la performance House with the Ocean View (2002- Sean Kelly Gallery). Per 12 giorni l’artista ha vissuto in silenzio, digiuno, e isolamento in tre ambienti sopraelevati all’interno della galleria esposta al pubblico giorno e notte. “Se mi purifico senza mangiare per 12 giorni, bevendo solo acqua pura, ed essendo nel momento presente, qui e ora, nelle tre unità nel muro che rappresentano la mia casa, come il bagno, il soggiorno, la camera, dove la scala che scende è ricavata da coltelli così non potrai più andartene, questo rigoroso modo di vivere e di purificazione farebbe qualcosa per cambiare l’ambiente e cambiare l’atteggiamento delle persone che vengono a vedere la performance, se verranno e resteranno dimenticheranno il tempo”.

E quando quello spazio ci sembrava claustrofobico e angosciante, ci siamo affacciati ai nostri balconi e abbiamo intonato un canto collettivo che parlava, però, dello strazio di una separazione forzata.

Come il canto dell’artista Sukran Moral che nella performance Bulbul (che in turco significa usignolo) chiusa in una gabbia intona una canzone turca che parla della dolorosa esperienza della separazione e della morte, tanto più intollerabile se vissuta nel chiuso di uno spazio angusto, che inibisce la reazione al dolore con la vicinanza, con l’esplicazione della propria libertà.

La Storia e le storie procedevano da un’unica terribile verità: la processione di camion dell’esercito che trasportavano verso gli inceneritori le bare di chi se n’era andato senza poter avere un saluto dai propri cari.

Abbiamo compreso tutti l’importanza del rito dell’addio per chi se ne va, ma soprattutto per chi resta.

Il potere taumaturgico della condivisione della perdita, piangere insieme, spartirsi il dolore, come le simboliche accumulazioni di caramelle da condividere, dell’artista cubano Felix Gonzales Torres, che ne costruì una dello stesso peso e altezza del suo compagno dopo la sua morte.

Eppure in quello spazio esiguo, in quel tempo dilatato, che avremmo potuto dipingere su una tela minuto per minuto, come Roman Opalka, avremmo potuto cogliere qualche verità, invertire la rotta, affinare la percezione. Come certi artisti che si chiudono nei locali attigui allo svolgersi di  un evento, per vedere da un’ angolatura diversa come si comporta la gente esclusa; avremmo potuto osservare noi stessi, come il fotografo tedesco Thomas Struth che alle mostre fotografa il pubblico che osserva invece delle opere; avremmo potuto allenarci ad ascoltare la voce dell’infinitamente piccolo, come John Cage che cercava di registrare il suono delle spore dei funghi; avremmo potuto ascoltare i pensieri non funzionali, incongrui, quelli che arrivano spontanei e non c’entrano niente, e costruirci sopra un’altra etica, un altro modo di fare come suggerisce Cesare Pietroiusti. “Il poeta lavora di notte quando il tempo non lo incalza”, diceva Alda Merini. Nella lunga notte che abbiamo attraversato forse qualcuno è riuscito a trasformare il confinamento in una opportunità per cambiare la visione delle cose e del mondo. (Una delle più belle testimonianze viene dal giornalista scrittore Paolo Rumiz, nel suo intervento al Salone del libro di Torino: Se la frontiera è la porta di casa).

Se solo avessimo provato a cogliere la nostra verità dentro la temporanea finzione, la nostra libertà dentro la momentanea costrizione, saremmo usciti davvero tutti migliori da questa esperienza. Riccardo Giannitrapani, matematico, scrittore, artista, poeta, e soprattutto insegnante appassionato, scrive nel suo geniale blog http://orporick.github.io/ – Diario dell’esilio- “…Aspettavo un tempo nuovo, ma forse aveva ragione Godel a cercare linee chiuse nel suo strano universo. Torneremo al punto di partenza e non avremo imparato nulla”.

Forse è proprio così, del resto c’è sempre in ogni performance la possibilità del fallimento, ma c’è anche la possibilità di aver creato almeno impercettibili cambiamenti, che porteranno domani ad utili slittamenti di senso. Chissà.

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